Fino a qualche anno fa, nell’affollato (e risicato) spazio del museo Moto Guzzi capitava, pur nell’ansia di raggiungere i bolidi da competizione degli anni d’oro o di scoprire i primi modelli in assoluto creati da Carlo Guzzi, di rimanere colpiti da una strana moto, messa un po’ lì quasi per caso, senza tante notizie e corollari. “Colpiti” forse non è la parola giusta perché questa motocicletta, per quanto inusuale – essendo da fuoristrada – non possiede una storia particolarmente gloriosa ed appariscente; forse potremmo precisare di essere colti più da un sussurro, da uno sguardo non troppo ostentato
(sì, uno sguardo, perché le moto ti guardano).
Esattamente quello che è capitato, anni fa, a Vittorio.
Fine 1985. Dopo la promettente esperienza della V65 modificata da Claudio Torri alla Dakar, in Moto Guzzi si convincono che vale la pena osare di più. Spinti oltre che da Claudio anche dal fremere transalpino dell’importatore francese Denis Bacholle, si prepara un nuovo prototipo cercando di superare i limiti ed eliminare i difetti della precedente V65 gialla, bianca e nera. Una moto bicilindrica leggera è l’ideale per i terreni difficili e imprevedibili della Dakar, e fin qui ci siamo: ora serve più potenza, più solidità generale e più escursione delle sospensioni, in particolare del forcellone. Nasce la V75 Dakar, prototipo costruito in una manciata di esemplari e portato a saltare sulle dune avventurose e implacabili della Dakar da tre piloti: Patrick Drobrecq, Bernard Rigoni e Claudio Torri.

Esattamente quella moto che ha stuzzicato Vittorio De Nardi, quando negli anni duemila aveva ripreso il gusto di avere una motocicletta – per la precisione una Moto Guzzi California Classic – dopo una pausa di molti anni, quella ‘classica’ pausa in cui incorrono in molti quando smettono di essere ragazzi. Ed è il ragazzo mai sopito in lui a vederla, a ricordarsi di quando correva da juniores nel motocross con una Ancillotti e chissà quanti altri petali vibranti avrà solleticato quel sussurro di passaggio.
Sicuramente non pochi, visto che da allora è partita una febbrile ricerca su chi ha creato e condotto quella moto,
tornando al museo con tanto di blocco e calibro a prendere tutte le misure possibili, perché da quel momento è chiaro che – visto che si tratta di un modello mai messo in vendita e quindi introvabile – dovrà essere replicato minuziosamente, tutto per lui.

Cominciano a crescere le ore passate in lungo e in largo per la rete e per mercatini alla ricerca di tutti gli ingredienti, e qui ha una buona dose di fortuna, dapprima trovando il serbatoio originale, poi le lunghe Marzocchi Magnum da 41,7 mm a gas, sempre rare da trovare, così come gli ammortizzatori Öhlins originali dell’epoca (tra l’altro a un prezzaccio clamoroso). Il motore utilizzato è un 750 originariamente a due valvole per cilindro, portato a 4 valvole con pistoni forgiati fatti fare ad hoc (per i quali ha scialacquato tutto il risparmio precedente) e due teste del Lario con un fino lavoro di ottimizzazione dei flussi per avere quanta più regolarità possibile nell’erogazione. Altra grande fortuna aver trovato un cambio originale NATO con tanto di pedivella di avviamento, una chicca da far impallidire berilli, magnesi e titani quanto a preziosità; oltretutto dovrebbe essere già la versione opportunamente modificata per le Dakar (il cambio NATO originale era progettato per il motore V50 e in gara si rompeva, tant’è che fu necessario un volo di Serafino – il meccanico che ha assistito Claudio nelle Dakar – con l’aereo personale di De Tomaso per rifornire di ingranaggi più solidi le moto in gara).
Per la realizzazione del forcellone ha avuto in prestito un originale, così non è stato difficile ricalcarlo, e già che c’era ha provveduto a rinforzarlo, non potendo utilizzare il cromo-molibdeno per la realizzazione. Anche qui ricordiamo il triste epilogo di forcelloni e cavalletti piegati su tutte e tre le moto in gara a causa del semplice ferro utilizzato per realizzarli al posto del più nobile – e soprattutto resistente – cromo-molibdeno. In quanto a originalità dei materiali si è fatto poi perdonare costruendo il capolino in plastica termoformata come l’originale, invece di una più pratica vetroresina, idem per la replica della plancia strumenti, anch’essa in lamiera battuta a mano fedele replica.

La rigorosa attinenza all’originale del progetto ha avuto i suoi inevitabili compromessi per la volontà di non tenere il bolide in salotto a fianco della credenza con i Rosenthal, ma di sporcacciarla ben bene per sterrati e godersela appieno, aspettate quindi voi puristi a storcere il nasino per il motorino d’avviamento, le frecce e ancor più i terminali di scarico omologati: è tutto necessario e inevitabile. La scelta del parafango posteriore Acerbis meno squadrato e di stampo crossistico è invece voluta per puro gusto personale.
Altra lieve digressione dall’originarietà è la coppia conica. Originalmente le V75 Dakar montavano delle 9/27 appositamente realizzate e assolutamente introvabili, a cui – dopo un’allucinante primo tentativo con una 6/35 ex Polizia con la quale a momenti impennava anche in quinta – ha rimediato scippando a un Idroconvert una 9/34, la coppia conica più vicina all’originale. La trasmissione resta comunque un po’ cortina e Vittorio si è prefissato di aprire la scatola cambio per capire una volta per tutte cosa montavano allora e vedere cosa si può fare.
Da notare lo scrupolo al momento della scelta dell’accensione elettronica al posto delle puntine: questa ha il sensore di fase che punta sul volano ma i carter del cambio NATO non avevano il foro per alloggiarlo, allora si è preso la briga e la pazienza di preservarlo montando un carter di un altro modello già sforacchiato. Che precisino.
L’imponente serbatoio è realizzato in polietilene reticolato a rotazione, tecnica per la quale Acerbis è stata pioniera e che consente forme a piacere e indistruttibili ma che necessitano di essere ‘precolorate’ miscelando il colore con il materiale in fase di stampo; tecnica poi sostituita dal nylon che consente la verniciatura classica senza problemi di distaccamento per i vapori della benzina.
Altro dettaglio interessante è la ghiera in alluminio con protezione trasparente del filtro dell’aria; questo era posizionato tra canotto di sterzo e serbatoio per la facile sostituzione in gara restando però molto esposto alle intemperie. Per la cronaca, sotto c’è un raccordo per far confluire l’aria nell’airbox originale dell’NTX.
E nell’uso su strada, per quanto sia ancora ‘fresca’ di realizzazione, la soddisfazione ricavata è tanta, con la sorpresa di aver riscontrato una bella maneggevolezza nonostante l’allungamento di 7 centimetri del forcellone. La Dakar originale ha in più anche un’inclinazione maggiore del canotto di sterzo, per garantire stabilità nella guida nella sabbia, ma stavolta saggiamente Vittorio non è stato così secchione.
Oggi, con la nascita e diffusione della nuova Moto Guzzi V85 viviamo piacevolmente la riscoperta di questi prototipi la cui storia forse non è stata piena di allori ma che comunque ha contribuito a diffondere fascino (vedi la livrea stessa della V85, identica al primo V65 di Torri) e passione. Per Vittorio non doveva limitarsi alla pura contemplazione e c’è da ringraziarlo se possiamo vedere su strada una più che degna replica di uno di quei prototipi. Chapeau.
Alberto Sala
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