La scelta era caduta su di lei, sulla Guzzi 850T5.

L’avevo preferita a tutte le possibili proposte, a tutti i modelli di tutte le marche, per il semplice fatto che era quella di maggior cilindrata che mi veniva offerta al prezzo migliore. La svendevano. Non avevo in tasca i soldi necessari per l’acquisto, così versai una caparra accordandomi sul ritiro appena avessi avuto tra le mani il contante pattuito.

Quella moto, quel brutto anatroccolo, mi aveva folgorato per il suo colore grigio canna di fucile e la sua ruota posteriore di generose dimensioni (per l’epoca).

Era bassa, lunga, ma la carenatura della Idea Uno le donava un’aria d’importanza, un profilo da squalo bonaccione, la ingentiliva.

Tramonto in Uzbekistan

I mesi seguenti li trascorsi chiuso in casa, nessuna spesa superflua, solo l’ossessione di mettere da parte il denaro sufficiente per impadronirmi di quel siluro. Di prestiti non se ne parlava, non facevano parte della mia cultura.

Le riviste lette per conoscerne le caratteristiche l’avevano affossata senza indulgenza ed era con queste remore che mi apprestai, nel gennaio dell’85, a porre le mie chiappe sulla sua sella. I soldi li avevo misurati, giusti, giusti. Un tot per l’assicurazione, un altro tot per il saldo, un mini tot per la benzina e il resto per i brindisi dei festeggiamenti e alla fine cuoio contro cuoio fino alla prossima mensilità.

Quando me l’accesero mi fece un certo effetto il suo rombo cupo e sommesso, ma ciò che mi impressionò fu vederla muoversi e “camminare” sul marciapiede in leggera pendenza all’esterno della concessionaria, nonostante stazionasse sul cavalletto centrale.

Salito in sella lo sconcerto fu totale quando al primo colpo di acceleratore la moto si mosse per la tangente, la frizione mi sembrò quella del mio motocoltivatore e per ruotare la manopola del gas dovetti metterci l’impegno d’un palestrato.

Posto di polizia in Sahara Occidentale all’esterno della caserma. Uno dei poliziotti era stato membro della guardia reale su motocicletta del Re del Marocco usando solo Moto Guzzi California appositamente allestite: è diventato matto quando ha visto il motore della mia e gli ho concesso un breve giretto perchè non stava nella pelle per poter guidare nuovamente una Guzzi.

Cominciò perfino a nevicare e da Conegliano a Udine fu una tragedia: le mani nude senza protezione per aver dimenticato, nella fretta, i guanti e naturalmente pure la tuta antipioggia.

Mi ci volle un  anno per abituarmi a quella dueruote tutta particolare, con le pedane basse, gli innesti del cambio lunghi come una processione, il cardano dalla risposta secca, gli ammortizzatori quasi assenti e quella guida tutta muscoli e calcoli geometrici senza margini d’errore.

Poi conobbi la sua resistenza, la capacità di carico, la sua frenata, il tiro, il piacere di starci in sella senza contare le ore, il ticchettio delle sue valvole, la dolcezza del suo motore e….. m’innamorai di lei perdutamente.

L’Europa ci vide cavalieri erranti e poi fu la volta dell’Asia Minore e quindi Iran, Azerbaigian, Georgia, le ex repubbliche sovietiche, la Russia, la Mongolia dove quasi affogò in una palude.

Per il suo motore il numero degli ottani erano dettagli, 74, 76, 80, 91, 95 numeri con cui far fumo da sputare, viaggiare a uno…. semplice riposo, le perdite di olio…. effluvi, spie di controllo.

Kazakistan senza benzina, rifornimento volante

Tenace nelle intemperie o sui percorsi più accidentati, nei guadi o nella sabbia del deserto, a suo agio dove ossigeno ce n’era in abbondanza o dove lo si doveva centellinare, semplicemente… unica, docile, infaticabile. 380000 km. tutti da raccontare.

Lei era la mia musa, la compagna, la mia protettrice, con lei mi sentivo invulnerabile. L’accarezzavo in corsa e le parlavo, cantavo insieme a lei e al suo motore e la baciavo ad ogni nostro ritorno. Le ho scritto perfino una canzone.

Poi venne quel giorno in cui rischiai di perderla per sempre, in un frontale assurdo e imprevedibile. Ma la salvai con un colpo di reni e tanto dolore per la mia gamba andata in frantumi. Lei fu rimessa a nuovo in un baleno, mentre per me ci volle un po’ più di tempo: quattro mesi d’ospedale e  due anni di riabilitazione.

Crimea, confine russo-ucraino.

Ora ci facciamo di nuovo compagnia, pronti a riprendere il filo del discorso, a dare scacco matto a quelli che ci vedevano perdenti, separati in casa, quando è solo la strada il pane per i nostri denti.