
Cesare lavorava nella vigna dall’alba. Ogni volta che guardava dall’alto i vitigni si sentiva riempire di gratitudine per i suoi vecchi. Quante bestemmie e sudore ci erano voluti per terrazzare lo strapiombo? Lui non sapeva, non era ancora nato; ma ogni volta che si chinava sentiva nella schiena, insieme alla sua, anche la loro fatica.
Rashida preparava il couscous. Si era alzata prima che il gallo cantasse e aveva cominciato a pulire le verdure e a far cuocere la semola. I suoi occhi vagavano fuori dalla finestra e iniziavano a riconoscere il paesaggio che usciva dal buio. Pensava alla madre, al dolore che doveva esserle costato lasciarla andar via sulla barca. Ci perdeva il cuore ogni volta che il profumo del coriandolo e della menta mischiati per l’harissa le arrivava alle narici.
Era settembre e il colore dell’uva diventava ogni giorno più caldo mentre l’aria intorno rinfrescava di tramontana. Cesare camminava attraverso i filari di bosco accarezzando gli acini, trovando una delicatezza imprevedibile nelle sue mani abituate alla zappa. Con la mente preparava il lavoro che sarebbe seguito. Trasportare l’uva in ceste pesanti, sciorinarla come fosse un bucato nunziale, e cominciare l’attesa di vederla essiccare. Ogni anno cosi, da che si ricordava. Da bambino la vendemmia era solo una festa, una gioia infinita. Con gli anni aveva iniziato a capire l’attesa dei vecchi, la preoccupazione se il vento girava, se il mare ingrossava. Sarebbe piovuto? La grandine sarebbe arrivata? Aspettava quei giorni con l’ansia di un padre al primo figlio.
Era settembre quando Rashida aveva lasciato sua madre, la sua terra, quel che restava della famiglia. Il mare faceva paura, come l’ignoto. Non sapeva cosa avrebbe trovato. Ma a casa non si poteva restare senza morire ogni giorno. La fame, le pallottole, gli sciacalli che venivano a rubare la tua miseria: chi ti avrebbe trovato per primo? Sulla barca l’incubo era continuato, ma la terra a cui si avvicinava le placava il tremore e le riaccendeva il colore negli occhi.
Ora stava mischiando le sue erbe antiche con l’olio della nuova patria. L’aroma di cipolla, aglio e peperoncino leniva un po’ la nostalgia.
Il lavoro metodico non impediva a Cesare di perdersi nei pensieri. A parte il suo vino non aveva mai avuto altra vita. Dopo la morte dei suoi era rimasto solo e nulla sembrava potesse alterare il ritmo del suo passo. Gli piaceva badare a sè stesso, cucinarsi da solo, stendere le lenzuola in finestra la mattina, a respirare l’aria salmastra. Quando le ritirava avevano un profumo selvatico che lo aiutava a prendere sonno. Sognava e nei sogni c’erano i viaggi che avrebbe voluto viaggiare. L’Oriente, le Ande, gli spazi infiniti. E città misteriose e nascoste. Se non avesse avuto il cuore impegnato nelle sue zolle gli sarebbe piaciuto andar per il mondo a sentire gli odori. Quelli lo incuriosivano davvero. Nei libri, nei documentari tv, poteva vedere quei luoghi lontani; ma davanti alle immagini dei mercati di spezie, dei giardini fioriti, dei campi di lavanda, si dannava perché non conosceva i profumi. Al risveglio restava il rimpianto.
Poi un giorno era sceso al porto per il pescato della notte e, vicino a lui, aveva sentito un profumo straniero e pungente che gli aveva fatto tornare alla mente i suoi sogni. Si era girato ed era rimasto incatenato a due occhi nerissimi e lucidi che stregavano la vita.
Il sole adesso era alto e illuminava la vigna e la casa di pietra. Cesare affrontava la salita per tornarsene a casa a pranzare. Rashida asciugava le mani e versava il couscous nella ciotola grande. Conosceva ogni rumore portato dal vento e quando sentì il passo del marito sorrise ed uscì. Anche Cesare sorrise. Si baciarono e il profumo dell’uva che lui aveva nelle mani si mischiò con il profumo delle spezie che lei aveva nei capelli. Entrarono e chiusero la porta. Il mondo era dentro la casa, nel loro abbraccio. Couscous e sciachetrà.
