La scena si svolge nel tempo attuale, in una cella della prigione di Austin, Texas. Sul palco una branda con coperte, un tavolino, un angolo nascosto da una tenda di plastica. Un ragazzo, John, sui vent’anni, esile e con capelli lunghi e barbetta, è seduto sulla branda con le mani intrecciate in mezzo alle ginocchia aperte: indossa jeans e una felpa. Le note di “Happiness is a warm gun”, dei Beatles, si diffondono nell’aria. Quando John comincia a parlare, presumibilmente con qualcuno che esiste solo nella sua testa, la musica sfuma e uno spot luminoso si accende e lo illumina.

Si, va bene ma c’ero io laggiù – tu che ne sai? Fanno presto a dire non è vero, te lo sei immaginato… Ma come cazzo ragionano? Non l’ho solo immaginato, ti dico. Ero là, e loro mi guardavano strano, in quel modo storto che hanno sempre tutti di guardarmi… lo conosco a memoria… penso che gli fanno una scuola per insegnarglielo, sai. È uguale dappertutto, diosanto (si passa le mani sui pantaloni, le asciuga dal sudore). Io lo capisco ancora prima di cercargli la faccia: sono anni che mi esercito a tenere gli occhi bassi, ma niente, loro mi scovano e mi frugano dentro, con quelle pupille scure… mi tirano fuori le budella, i pensieri, l’anima se ce l’ho, che non lo so neanche più. I loro occhi sono come frecce intinte nel curaro e mi avvelenano – ma non fa differenza…

Joyside Happiness is a warm gun

Mia madre pure mi guardava così e mi diceva che le tiravo gli schiaffi dalle mani, e infatti ne ho presi tanti da lei, specie sulla testa, che mi sbattevano le labbra sull’orlo della scodella. Uscivo di casa la mattina già col mio bel carico di disfatta dipinto sulla visiera del berretto, che calavo sugli occhi – la vergogna di essere un debole, la paura che si vedesse la mia paura – di tutto- inadeguato, senza palle – senza mai una ragione. E subito fuori di casa, il viaggio – chi dice breve non lo sa, non l’ha mai fatto con il mio cuore nel suo petto, un cuore che rallentava e poi si schiantava – insieme agli altri, che non avevano niente in comune con me, se non la meta; il viaggio sull’autobus giallo che mi tirava su in fondo a Lawns Road e mi vomitava giù, dopo l’ultima uscita della US 183, all’ingresso della scuola.

Joyside Happiness is a warm gun

La scuola, che da bambino era il mio sogno, e che divenne invece il mio incubo grigio, dai contorni sfumati, per via delle lacrime affacciate sull’orlo- sempre- di odio o di rancore, di solitudine e disperazione. Che cazzo ne sanno loro, eh? (si asciuga gli occhi e il naso con la manica della felpa) Le aule colorate a tinte pastello e nelle aule il maestro, maniche nere e gesso, e poi gli insegnanti imbalsamati in sorrisi finti, idoli nella mia testa ma presto carnefici nella realtà: anche loro quello sguardo – da subito, cazzo- neanche il beneficio del dubbio- Me lo invento, dici? Non lo so- ma non credo. (si stende sulla branda e si gira di schiena al pubblico). Se almeno potessi dormire…

Parte la stessa canzone dei Beatles ascoltata all’inizio mentre John sospira e si gira ancora e ancora, poi si mette seduto, a gambe incrociate sulla branda.

La musica sfuma

A volte di notte immagino che mio padre mi viene a trovare. No, la faccia non gliela vedo mai- come faccio a sapere com’è? mica lo conosco- però delle volte lui viene e parliamo. È buio, perciò non mi serve sapere i suoi tratti, è la voce che conta

(pausa lunga, sorriso tenero)

Anche quando ero a casa, bambino, delle volte lo immaginavo a parlare, aspettavo le storie che mi avrebbe raccontato e ascoltavo –“…ero Capitano sull’Orient, un veliero stregato dal ricordo del precedente capitano, morto pazzo… te l’ho mai raccontato figliolo?”- e ascoltavo-“…la mia baleniera, comandata da Achab, senza una gamba dal ginocchio in giù, era a caccia di un vecchio ed enorme capodoglio… ti ricordi che cos’è un capodoglio, vero, ragazzo?”- ascoltavo-“…eravamo a Mompracem, quell’anno e rimasi gravemente ferito, mi portarono a Labuan e là vidi per la prima volta Marianna… che spettacolo John, vecchio mio”- rispondevo a monosillabi, per non rompere l’incantesimo della sua voce- si, vabbè- la mia. Chi lo sa… se lui fosse tornato davvero mi avrebbe guardato a quel modo, anche lui…?  Non tornò e così non lo posso sapere. Quante cose non so, o non capisco. Prendi il nome, per esempio. Mi chiamo John; non è un brutto nome, ce n’è tanti peggiori. E’ anche facile da ricordare, penso, e allora perché nessuno lo usava? Per mia madre ero ‘junior‘, nel bene e nel male. Per i ragazzi sul bus ’fottuto bastardo’, ‘testa quadra’, ‘puzzone’, mentre palleggiavano col mio zaino o il berretto e poi, per il resto del tempo- signor nessuno, silenzio, neanche mi guardavano più.

Joyside Happiness is a warm gun

Per la scuola ero Nolan, un cognome, o, se parlavano di me tra di loro, ero ‘quello’, o a volte, più spesso ‘il figlio di Marth, la rossa’ e non perché mia madre si tingesse i capelli… lo diceva lei stessa “Junior, ricordati: il comunismo è l’unica religione in terra, quando muori sei niente, concime per vermi…” Sono cresciuto a pane e disprezzo- ma lo capisco eh… -senza padre, con una madre che buttava i pochi soldi che portavamo a casa in birra e io, che la notte mi abbuffavo di pane e burro di arachidi e leggevo i fumetti. Ingrassavo. ‘Obeso’ si dice, l’ho letto su una rivista, chissà quando… “Ciccione di merda”, “palla di lardo”, “rotolo di grasso” “maiale”: in cortile, o a giocare per strada, era questo, di volta in volta, il mio nome. Poi c’è stato Drew, alla pompa di benzina dove andavo nel weekend a lavare le auto, lui mi chiamava “schiavo” e rideva…’ il mio schiavo bianco’, sghignazzava coi clienti che facevano il pieno o si fermavano a bere una Coca. E così, se avevano bisogno di me, anche loro, ridacchiando un po’ imbarazzati, mi chiamavano “ehi, schiavo, lucida bene il cruscotto”; poi mi allungavano un dollaro o due, per la mancia. Andava bene anche così. Però ‘schiavo’ – a casa ci pensavo e provavo risposte da dare, ma non ne venivano. Mi mettevo a dormire, va bene- ma ‘schiavo’, cazzo – schiavo è una merda di nome.

John tace e si sdraia, girando la schiena al pubblico. Riparte la canzone “ Happiness is a warm gun” e lui si rigira sulla branda. Sta un po’ immobile, poi si alza lentamente. Resta in piedi a lisciarsi i capelli e la musica sfuma.

Simon fu il primo a chiamarmi per nome. ‘John’- mi disse quel sabato sera-‘ John’- ripetè, come se gli piacesse quel suono-‘ per favore mi dai una passata anche ai cerchi?’ Rimasi a guardarlo stupito con lo straccio di daino che mi pendeva dalla mano, inerte. Lui sorrise e mi disse ‘per favore, amico’ e a me venne voglia di piangere. Mi aveva chiamato per nome- mi vedeva, cazzo! Per lui ero fatto di carne e non d’aria. Pulii quella moto con foga e passione: gliela resi che i cerchi brillavano nella notte e sulla sella ci potevi mangiare. Mi diede cinque dollari e una stretta di mano. (si tira in dietro i capelli con forza) Per la prima volta in vita mia ero felice. Lo capisci che per lui avrei dato la vita? Dopo quella sera spesso andavamo a bere una birra downtown. Saltavo su, bello stretto ai suoi fianchi e sentivo le frange della sua giacca di pelle sbatacchiarmi sulle cosce. Musica, cazzo. Avevo un amico. (ride felice, con una risata da bambino, che presto si tramuta in pianto) Qualche mese più tardi, era quasi natale, lo beccarono all’alba, due pallottole in testa: stava nascondendo la coca rubata in un posto sicuro, lo chiamava così: una casa, sulla strada per Mustang Ridge, mi ci aveva portato qualche volta, quando aveva bisogno lo aiutavo a tagliare la roba: bevevamo qualcosa e poi Simon parlava. Mi parlava di moto, di Harley, il suo unico amore. Ma in un attimo è tutto finito. Ero solo, di nuovo.

Joyside Happiness is a warm gun

Riparte la canzone “Happiness is a warm gun” e John si dirige verso l’angolo con la tenda tirata. Ne esce dopo poco, tirandosi su la lampo dei jeans. Si siede sulla branda e la musica sfuma.

Chi lo dice che dopo si sta bene lo stesso? Se hai avuto un amico vicino te ne accorgi che la birra ha un altro sapore quando siedi al bancone del pub. E la gente, la fottuta gente mi guardava di nuovo con quegli occhi beffardi. ‘Sei triste, cowboy?’’, ‘Certo che sei strano, eh ragazzo, per forza sei sempre da solo…’ Le sentivo le voci, anche se loro non parlavano mai con me… le sentivo rimbombare forti e chiare. E avevo paura. È per questo che sono andato da Martin, al banco dei pegni di San Marcos, abbastanza lontano da casa, con i 400 dollari rubati alla vecchia Martha, che nasconde il contante nel barattolo del tè- Presi anche le chiavi del suo pickup di merda e mi mossi per tempo. Martin se ne frega di come sei fatto, se ne frega di tutto: se gli dai il cash, lui ti vende tutto quello che chiedi, compresa sua nonna, se l’articolo ti interessa (John sghignazza) Così tornai a casa col mio bell’AR15 (‘è usato, ma sembra nuovo, tenuto come un figlio dal suo proprietario, ragazzo: 60 colpi al minuto, un gioiello! Con questo ti diverti sicuro’), avvolto in carta di giornale. Transazione completata. Avevo un nuovo amico (sorride e fa finta di mirare, mimando di avere il fucile tra le mani). Non ho mai pensato di usarlo davvero. Voglio dire, di sparare a qualcuno. Andavo a esercitarmi nel bosco dietro casa, passavo le ore a frantumare bottiglie, tronchi d’albero, a volte capitava che uccidessi un paio di armadilli, niente di che. Ma se uscivo di casa la sera, lo portavo con me. Avevo comprato una sacca di stoffa e ci avevo cucito una tracolla di jeans, robusta. Se prendevo il pick up, lo appoggiavo ai miei piedi… mi sentivo sicuro. Ci parlavo, perfino. Te l’ho detto, no? – avevo di nuovo un amico. Ma felice… eh felice non lo ero più.

(John si stropiccia gli occhi e fa una pausa – in sottofondo si sente la canzone dei Beatles, che continua a suonare a basso volume anche quando John ricomincia a parlare)

Simon mi mancava. Con lui ancora vivo non sarebbe successo… con lui che parlava della sua Electra Glide e mi portava con sé… Quel giorno mi sentivo di merda, era l’anniversario della sua morte. Faceva freddo ma c’era un bel sole e decisi di prendere l’auto di Martha, quel pick up scassato, e andare fino ad Austin, a farmi un giro nel Campus per vedere cosa mi ero perso a non continuare la scuola… forse ci stavo ripensando, in fondo avevo neanche diciannove anni, non era troppo tardi, no? La mia vecchia diceva che i soldi li avrebbe trovati e che intanto io potevo cercarmi un altro lavoro, oltre a lavare le auto da Drew…

Joyside Happiness is a warm gun

Presi il fucile con me, più per abitudine che per altro… ormai era come prendere le chiavi di casa. Arrivai che era l’ora di pranzo. Ero partito tardi da Mustang, e la US183 era trafficata, mancava poco a Natale, la gente si muoveva in massa e trovai coda nell’ultimo tratto. Mi sentivo nervoso e affamato. Un paio di volte, controllando lo specchietto, avevo incontrato ‘lo sguardo’ e mi stavo scaldando un bel po’. Possibile che non mi lasciassero in pace? Che cazzo gli avevo fatto per essere sempre sotto tiro, porca puttana! (mentre racconta di quel giorno John si contorce le mani, poi si alza e passeggia, si risiede) Parcheggiai all’angolo est, davanti alla Biblioteca universitaria. Rimasi seduto al volante e abbassai il finestrino. Guardavo i ragazzi che entravano e uscivano dall’edificio, guardavo le facce arrossate dal vento, scrutavo i sorrisi, le sciarpe e i berretti di lana. Mi sembrava tutto così bello e leggero che non so, mi rilassai- forse sorrisi. Passarono due ragazze vicino al pickup, chiacchieravano fitto, le guardai con il desiderio struggente di essere come loro, e…bang! ‘Cosa guardi deficiente? Perché non ti fai i cazzi tuoi?’ mi gridò la più carina delle due, e poi rise, insieme all’amica bruttina. Il mio cuore piombò sul selciato e la strada divenne d’inchiostro. Mi chinai e tirai su il fucile, lo appoggiai nell’incavo tra la spalla e la guancia e meno di cinque secondi dopo , mi ritrovai a fissare i due corpi scomposti nell’aiuola, pochi metri più avanti. ‘Chiudi i tuoi cazzo di occhi, puttana- e tieni chiusa la bocca’ bisbigliavo scendendo dall’auto… continuavo a imbracciare l’AR.

Mi avvicinai alle ragazze crivellate di colpi e provai a spostare i capelli di quella carina col piede, ma le mie Converse bianche si sporcarono subito in punta, così, dopo averle strusciate nell’erba, proseguii.

Dalla porta a vetri della biblioteca uscirono cinque ragazzi, esitarono in cima ai gradini che portavano al prato, guardando prima me – quello sguardo, cazzo!- poi le tipe più avanti. Uno urlò, forse un altro si mise le mani sugli occhi- ma non so, non ricordo l’esatta sequenza- il mio dito era già in movimento e una raffica breve, ma lunga abbastanza al mio orecchio, li falciò senza che potessero muovere un passo. Continuavo a camminare, mentre parlavo con Simon, con mio padre, con un dio, se ce n’è…‘ Non ne posso più, sono stufo di sguardi malati… cazzo! di parole taglienti, di silenzi feroci…’ Abbracciavo l’AR e sentivo un calore nel corpo che mi ricordava la felicità che provavo contro i fianchi di Simon, o la sera nel letto, quando la voce di mio padre…si, va bene- la mia…

John si butta sulla branda a faccia in giù e piange. La musica sale di volume e riempie il palco. Poi cessa. Silenzio. John si gira e rimane sdraiato.

Mi hanno detto che mi sono nascosto nell’intercapedine della palestra e che quando mi hanno trovato, abbracciavo ginocchia e fucile e cantavo ”…when I hold you in my arms (oh yeah) and I feel my finger on your trigger (oh yeah) I know nobody can do me no harm (oh yeah) because happiness is a warm gun, mama (bang bang shoot shoot)[1]

Ho saputo dall’avvocato d’ufficio- Martha la rossa non è mai venuta a trovarmi qui – che alla fine di quella mezz’ora di casino ne avevo stesi tredici- un  bel numero, cazzo… non ricordo più niente, nemmeno come mi hanno portato via. Comunque a chi importa? Nessuno chiede di me. Nessuno mi scrive. Le guardie, che mi guardano dritto negli occhi, hanno figli che frequentano il Campus e se potessero uccidermi lo farebbero subito, senza aspettare il processo o l’iniezione. Dicono che sarebbe un bel risparmio per lo Stato. Li capisco. Davvero. Sono gli altri che non hanno mai provato a capire me. Solo Simon- e la voce di mio padre- si, ok, va bene… la mia.

Joyside Happiness is a warm gun

La luce piano piano si abbassa e John resta sdraiato con le mani dietro la nuca, canticchiando sommesso, insieme ai Beatles  “…happiness is a warnm gun..yes it is yes it is yes it is….”.

Buio

[1] “…quando ti tengo tra le braccia (oh si) e sento il mio dito sul tuo grilletto (oh si) so che nessuno può farmi del male (oh si) perché la felicità è un’arma calda, mamma (bang bang spara spara)