Alcune parti del mondo colpiscono per la loro petulante insignificanza. La monotonia dei loro paesaggi, il ripetersi per chilometri e chilometri delle stesse visioni, degli stessi soggetti naturali, dei medesimi colori fissi sulla uniformità degli orizzonti, generano un’apparente noia, ma in realtà questi fattori aggiungono esperienze, colmano vuoti, a modo loro stupiscono. I deserti, le praterie, le steppe, le foreste infinite nonostante possano ricondurre o ipoteticamente avvalorare queste caratteristiche, in realtà ne sono distanti anni luce.
Per esperienza questi habitat sono mutevoli ad ogni passo. Chilometro dopo chilometro svelano i loro tesori custoditi negli scrigni della loro apparente uniformità. La ripetitività senza soluzione di continuità della stessa matrice naturale, determina una sorpresa e un fascino tale, da togliere sugli assi cartesiani i fattori spazio temporali. Il tutto si annulla nell’indeterminato percorso rettilineo ad inseguire un punto ipnotico, irraggiungibile, in lontananza. Centoventi chilometri percorsi, dritti, in una piana coltivata a grano ancora verde, rotta soltanto dalla linea elettrica in lontananza e dalla strada come una cicatrice, un taglio netto di bisturi maligno, erano stati, quella mattinata, uno straordinario esempio di affascinante vacuità. Lo sbattere di pale ed il motore di un elicottero a spargere veleni a pochi metri da quel mare senza onde, senza movimento era stata l’intermittente colonna sonora. La mia guzzona come Mosè a dividere le acque seguendo quella linea senza curvature, incroci, senza un’incertezza; lei mia compagna fedele a dipanare quel segmento di bitume e ghiaia in guisa di un biliardo, un tappeto a tratti talmente liscio da annullare attriti, lungo quel percorso senza tempo, apparentemente senza fine. Monotonia dell’incanto rotto dal borbottio della mia Moto Guzzi T5 sbarcato in quel porto franco, senza una fattoria, un distributore, un trattore, una vettura da superare; solo qualche camion dal muso vecchio stampo a disegnare fumose traiettorie. Niente di niente, soltanto il verde intenso del frumento e nemmeno un alito di vento. Immaginavo di essere un puntino, lì, appena percettibile, un insetto, un corpo estraneo tenuto d’occhio da quell’elicottero con le sue larghe branchie a sputar veleno.
Pazzesco quel mare monocolore a cui non riuscivo a dare dimensione. Quando lo superai mi parve di aver rotto un incantesimo.
Ebbi la sensazione di aver vissuto un blando trapasso, un corto circuito dal voltaggio tenue, a riportarmi al pranzo delle iene dove tutto si conquista, metro dopo metro, nel traffico di città e villaggi di mezzi meccanici di ogni sorta e specie, a cui si univano animali a spasso per le strade con noncuranza e flemma londinese.
Non mi trovavo però in India o in Indocina ma nel Nord del Kazakistan a destreggiarmi su piste polverose, tratti asfaltati a macchia di leopardo, e solchi nella steppa paludosa sulle innumerevoli deviazioni dovute alla strada di grande comunicazione in costruzione. Senza contare i branchi di bovini in transumanza, o greggi a spadroneggiare lungo la via maestra o i dromedari al pascolo ai bordi della strada, quasi straniti per il disturbo, al mio passaggio. Ma finì anche quel rimescolio di gente, bestie e auto scasse, o suv dai vetri oscurati ed improvvisa come una pista di aeroplano mi accolse uno stradone a due corsie, tutto per me, tutto a mia disposizione.
Ai lati foreste di conifere, boscaglie di betulle, spianate di steppa verdeggiante o a tratti secca, dove il vento la faceva da padrone. Era la nazionale nuova: un nastro nero come il carbone che in lontananza dava riflessi di acquitrino, mi tracciava la rotta, il mio percorso in esclusiva, il mio cammino. Che sballo, chilometri e chilometri senza nessuno, senza nulla che mi potesse disturbare. Zigzagavo felice come un bambino, con tutto quello spazio liscio nemmeno da esplorare tale l’uniformità di quella asfaltatura regolare. Niente segnali, guardrail, nessun impiccio, tutto nuovo, anche l’asfalto pareva posticcio circondato da quella natura debordante, quasi violata da quella lingua che si insinuava sfregiando quell’angolo di mondo vergine e selvaggio.
Finì purtroppo anche quel tratto e venne sera. Una sera piena di luce all’orizzonte così accecante da costringermi ad ammainar bandiera. Trovai sistemazione in una “gastiniza” (albergo) che era una bicocca, un incrocio fra un deposito d’attrezzi e un capannone ricovero d’animali allo stato brado. La camera pulita per non dire linda, era da minimo sindacale, talmente spoglia che mi meravigliai di ritrovarvi il letto e un comodino messo lì apposta per dare una parvenza di luogo di riposo a quella stanza. La proprietaria era invece d’altra pasta, elegante e di una gentilezza d’altri tempi parlava un suo francese miscelato al russo e si scusò per la sistemazione di fortuna dettata dalla ristrutturazione in atto. In verità le pseudo camere a disposizione erano soltanto due ed io a quel momento, il suo unico avventore. Lei viveva giù al villaggio dove mi portò con la sua Zigulì (la 124 FIAT prodotta a Samara su licenza) tenuta con cura certosina. Cenai insieme a lei che rimase a secco, ma volle tenermi compagnia ingurgitando succo di mela ed un prodotto di non facile lettura, mentre io mi abbuffavo di una “szorba” deliziosa e patate cotte al forno dure come sassi a contorno di carne di bovino morto d’eutanasia. Mi parlò dei suoi trascorsi in terra di Francia e del suo ritorno in Kazakistan a separazione dalla Russia già avvenuta. Li odiava i russi, lei, per partito preso e il suo ex marito, russo, in particolare maniera. Lo aveva lasciato là, nella banlieu parigina a dirigere un’agenzia import-export, con le sue quattro puttanelle e le sbornie settimanali. Si era stancata dei suoi tradimenti, delle sue menzogne patetiche, quasi maldestre e neppure condite di un briciolo di fantasia. Viveva con la quota degli alimenti che mensilmente gli accreditava e di quell’albergo che chiamarlo tale, fu lei a dirmelo, era un insulto alla decenza.
Ritornammo a quel tugurio a notte fatta, io stanco ed assonnato quasi in apnea, lei ciarliera e piena d’energia a raccontarmi della sua vita e a far domande sulla mia. I miei silenzi reiterati la indussero a staccare la spina e a lasciarmi andare, trascinandomi, al mio giaciglio dove caddi a peso morto. Mi addormentai quasi di botto e se non era lei a darmi la sveglia quella mattina sarei rimasto là la giornata intera. Il clima di quei luoghi, ero dalle parti di Kostanay, conciliava con il sonno ed io ne avevo in arretrato quelle settimane, preso dalla smania di viaggiare fra quelle lande sconfinate a visitare città dalla bellezza entusiasmante.
Partii piuttosto tardi dopo i convenevoli e le foto, con la raccomandazione fattami dalla signora, di procurarmi benzina ad ogni occasione perché di distributori non ce n’erano mica in abbondanza su quelle strade rinnovate.
Glielo assicurai convinto che il problema non mi toccasse più di tanto;
la grande autonomia della mia guzzona mi allontanava da spiacevoli sorprese.
La strada per Rudny facile ed intuitiva me la sorbii in un rilassante dormiveglia. La città mi accolse anche lei con l’aria sonnacchiosa e costruzioni in stile russo messe là in un apparente ordine perfetto che sapeva di campo di lavoro. Razionale nel suo sviluppo quadrangolare aveva da un lato basse costruzioni in legno o in muratura e dall’altro casermoni a spina di pesce, ben allineati, in cemento armato scolorito e a tratti smozzicato dalle intemperie o dal pressapochismo costruttivo. La sfiorai appena seguendo la strada principale che ne evitava l’attraversamento e dalla periferia per me cominciò l’inferno. La strada malridotta, talvolta assente, si dipanava accanto a quella nuova in via di costruzione. Ne seguiva lo sviluppo con deviazioni continue nella steppa, alternate ai pochi tratti con l’asfalto appena steso o ai mozziconi della vecchia via ridotta ormai in rovina. Un’ecatombe, uno sforzo immane nel tener l’assetto giusto in quelle piste sabbiose o dure come il marmo, ma infide ed insicure per gli improvvisi cambi di pavimentazione.
Fortuna che la mia Guzzi quando c’è d’andar piano non si lamenta. Mi accompagna con rassegnata noncuranza e alle sevizie che gli procuro a più non posso, risponde con il suo sommesso borbottare, ma senza mai rimproverarmi nulla. Patisce invece quando gli tiro il collo con irrispettosa e gioviale energia e spesso senza una ragione, con in corpo benzina povera di tutto, perfino di colore. Allora si, diventa recalcitrante e se caricata come un cargo o un’astronave, sbuffa, s’imbolsisce, lasciando dietro a sé fumo di trattore.
Fu un lungo battagliare, fra deviazioni e scambi di corsia, insabbiamenti e toule ondulè da spaccare le braccia, telai e supporti di sostegno. Ne venni fuori distrutto, più nel morale che fisicamente. Quella tortura durò fino al primo pomeriggio quando quella strada cambiò aspetto. Come una folgorazione si presentò ai miei occhi una lingua grigio scura a perdita d’occhio che divideva in due la piatta steppa. Non mi parve vero e il mio primo pensiero fu: “non può durare”. Ma mi sbagliavo e con piacere immenso guidai senza pressioni fino alla M32 che presi d’infilata in direzione Actobe. Feci il pieno nei pressi di un villaggio contadino con mattonelle di sterco accatastate all’esterno delle stalle, mentre gli animali al pascolo vi facevano ritorno, chiesi ad un pastore a cavallo se la strada sarebbe stata sempre così bella.
Si! Si! Mi fece con il capo fino ad Actobe “Asfalt, asfalt, asfalt!”. “Oh! Che goduria!” pensai e con un cenno di gran soddisfazione lo salutai e diedi gas senza remissione.
Viaggiai con il vento in poppa e un sole in faccia che non diede tregua al mio avanzare incontro a quel tramonto sfavillante, con gli occhi tenuti a fessura quasi senza guardare tanto la luce era potente e capace d’accecare. Duecento chilometri di patimento, con l’unico obiettivo d’arrivare a quella città divenuta ormai un miraggio, un punto fisso, quasi una ragione. E ci arrivai distrutto da quello sforzo di contrasto, non per l’aria o il vento, ma per quella luce obliqua che mi feriva gli occhi, sprovvisti di qualsiasi tipo di riparo, se non la visiera trasparente che ne frazionava i raggi in vari colori regalandomi ulteriore fastidiosa sofferenza. Capitai in un alberghetto di quarta scelta nei pressi di una stazione secondaria. Il proprietario non avvezzo a clienti stranieri mi trattò come un re. Mi coprì di mille attenzioni, servizievole fino all’eccesso, non la finiva mai di chiedermi se avevo esigenze particolari e se tutto fosse di mio gradimento. Gli chiesi se c’era una “stojanka” (parcheggio) a pagamento lì nei pressi ed egli con una sollecitudine che mi lasciò basito, tolse dal suo garage l’auto per far posto alla mia guzzona che vi entrò come una regina nonostante la sporcizia che aveva addosso che ne deturpava il profilo già di suo non certo entusiasmante. Si offerse di cuocermi un paio di “pilmini” (ravioloni farciti di carne speziata e cipolla) e mi riscaldò una “sciorba” (minestra) di cui volli il bis prima di finirla e patate al forno da oscar della cucina. Bevemmo insieme della birra che chiamarla tale era un inganno e si finì con il tradizionale brindisi a base di wodka e succo di mela al quale seguì un the che mi stordì, tanto era forte e carburato. Faticai a prender sonno e dormii irrequieto quella notte che a conti fatti durò poco, perché mi alzai ancora mezzo intontito e con tanta voglia ancora di dormire. Feci colazione in dormiveglia e un’altra doccia per riprendere conoscenza. All’atto di pagare chiesi all’uomo quale strada fosse la migliore per raggiungere Atyrau sul Mar Caspio. Lui mi guardò accigliato, forse stranito dalla mia destinazione e indugiando non poco nelle sue riflessioni, mi consigliò di evitare quella diretta via Kandyaghash perché ad un certo punto si trasformava in una pista battuta solo dai cammelli. Mi indicò Oral come la meta su cui puntare per poi scendere ad Atyrau seguendo il fiume Ural fino al Mar Caspio.
Naturalmente non mancò di raccomandarmi di fare il pieno ad ogni occasione ed io al solito lo rassicurai senza esitazione.
Quella lunga deviazione non mi sorprese, la mia guida Lonely Planet mi aveva già messo in guardia, ma volevo avere una conferma delle difficoltà a cui sarei andato incontro se mi lasciavo sedurre da quel tragitto che il mio istinto avventuroso mi prefigurava. All’ultimo decisi di non tentare la fortuna e scelsi di allungare in direzione Oral senza ripensamenti, anche se quella rinuncia mi costò parecchio. Presto però compresi che la scelta fatta era stata quella giusta.
Una quarantina di chilometri senza sofferenza furono il preludio a un’immersione in un mare di sabbia e buche, di avvallamenti, gobbe, dossi, un campo di battaglia che durò un tempo indefinito ma che a me parve eterno. Faticai non poco a trarre d’impaccio la mia cavalcatura nel suo affondare e riemergere, scuotersi tutta e rimbalzare tracciando canali scomposti, buche, fosse, con la sua ruota posteriore che pareva affogare in quella polvere, in quella sabbia fine. Fu una lotta tremenda, spossante, il carico si faceva sentire. Quattro chilometri da guerra nucleare. Ne uscimmo, io, con le ossa rotte, lei allegra come un fringuello, felice di distendersi dando alla sua marcia un non so che di facile e leggero. Non aveva perso un colpo in quella palude secca, nonostante la tenessi giù di giri per non farla affondare. Me lo faceva presente facendo le fusa come una gatta, senza fastidio, senza rancore con il suo ritmico borbottare. Fuggimmo via di gran carriera con l’ansia di imbatterci di nuovo in qualche ostacolo da superare.
La corsa ebbe vita breve. Mentre guidavo assorto nei miei pensieri vidi in lontananza qualcosa muoversi a ritmi lenti, un punto indefinito che ondeggiava con alle spalle un cubo bianco. Lo raggiunsi in fretta quel ectoplasma data la sua lentezza e così feci conoscenza di uno di quei pazzi viaggiatori di cui è pieno il mondo. Si chiamava Louis ed era di Marsiglia. Si era messo in marcia con la sua fida bicicletta completa di carrello colmo di ricambi, vestiario, scarpe e oggetti utili al bivacco, una settimana dopo il lasciapassare per la pensione. Aveva lavorato tutta una vita alle poste francesi e la sua passione per la bici lo aveva spinto a questa impresa: un anno via da casa a visitare l’Asia palmo a palmo. Sull’orlo del divorzio per la decisione presa ora faceva ritorno a casa a rivedere sua moglie, sempre se lei non avesse deciso di fargli una sorpresa, cambiando domicilio nell’attesa. Me lo disse con fare sornione e una punta di speranza… che se ne fosse andata. Basso di statura, tutto nervi e pelle abbronzata portava un casco azzurro nonostante la calura e una canottiera bianca senza una macchia di sudore. Il carrello pesava venti chili e tirarlo appresso era fatica, ma tutto era fattibile, bastava non avere fretta e riposarsi spesso e bere, bere a più non posso, mi disse sorridente, raggiante per aver compreso che il suo interlocutore era della sua stessa pasta. Io, in cuor mio non mi capacitavo di come fosse riuscito a superare il tratto di strada che mi aveva messo così in crisi. Quando glielo chiesi, lui mi sorprese dicendomi che lo aveva semplicemente evitato, allungando la strada e cercando un passaggio nella steppa in una zona meno sabbiosa. Una decina di chilometri in più al seguito di una mandria di bovini e di un pastore a cavallo, e risolta la questione, fu la sua laconica risposta. Lo salutai con meraviglia, come si saluta un marziano, conoscendo appieno strade e distanze ed il calore in quelle lande sconfinate.
Questi francesi sono davvero sorprendenti, ne ho incontrati parecchi nei miei viaggi solitari, uno perfino nel deserto dei Gobi, nel tentativo, andato a vuoto, di attraversarlo in solitario. Li aveva vinti tutti i deserti del pianeta, ma il Gobi, il più difficile, quasi impossibile, non gli era riuscito di domarlo e ne soffriva. Aveva rischiato di morire in questa sua ultima impresa e fu solo grazie all’intervento di alcuni mongoli che fu salvato. Il rischio era stato grosso in quel deserto dove tempeste di sabbia, vento e freddo notturno sono micidiali e a chi è appena un po’ debilitato non dà scampo. Si era trovato nella condizione di non poter mangiare, non riuscendo più ad aprire la bocca sanguinante per il vento che aveva incartapecorito labbra e viso. Esaurite le scorte di alimenti liquidi, senza più energie, in balia del caldo torrido diurno e del freddo pungente della notte, si era messo al riparo del suo cammello giovandosi del suo calore e della sua stazza, in attesa di un aiuto, che arrivò dopo vari giorni di sofferenza, per mano di un gruppo di nomadi, padroni assoluti di quegli spazi inospitali. Ma da buon irriducibile francese era pronto per un nuovo tentativo, convinto che la colpa dell’insuccesso fosse da ascriversi al suo cammello pigro che ne aveva ridotto la resistenza dovendolo trainare e non esserne trainato.
Ripresi la strada per Oral convinto che Louis, invece, il suo rischio l’avesse calcolato facendo conto sul suo ottimismo e sulla sua enorme resistenza, mentre lo specialista dei deserti era uno che andava allo sbaraglio confidando sulla buona stella. Mentre mi trastullavo in queste valutazioni superai un villaggio e un piccolo distributore nei pressi di un’officina ma considerando che da poco avevo fatto il pieno non mi preoccupai oltremisura. I primi sintomi di un’apprensione latente li ebbi al trecentesimo chilometro, quando, fatti i conti, me ne rimanevano ottanta come margine di sicurezza. La strada fino a quel punto si era rivelata assolutamente inadeguata con tratti da far accapponare la pelle, da ridurre l’andatura ad una corsa greve, un percorso ad ostacoli, uno slalom fra pozzanghere, voragini, cumuli e pezzi d’asfalto come croste sulle ferite. Poi d’improvviso la strada si fece bella cosparsa di sabbia fine come borotalco a coprire il manto d’asfalto appena steso.
Volammo, finalmente, io e la mia compagna borbottante, con l’ansia di recuperare il tempo perso. Il volo si trasformò però in agonia quando un cartello posticcio indicò in centoquaranta i chilometri per raggiungere Oral.
Piombai nello sconforto quando m’accorsi che i chilometri percorsi erano trecentosessanta, e da un centinaio nemmeno l’ombra di un villaggio, di un’isba, una casa, niente di niente. Nemmeno un’auto, un camion, qualcuno, la strada deserta, cupa come il cielo che ci sovrastava pareva metterci spalle al muro, col peso grande delle nostre responsabilità. Quando lo scoppiettio dello smagrimento della benzina mi costrinse a ruotare i due rubinetti sulla posizione di riserva il mio polso destro ebbe un riflesso condizionato e cambiò angolo alla manopola appena sopra il minimo e l’andatura calò come per incanto, raggiungendo velocità poco lontane dal sourplace. Si andò avanti così per un bel pezzo, con gli occhi che scrutavano lontano in cerca di un villaggio, di una casa, di qualcuno a cui chiedere soccorso, aiuto, o solo un barlume di speranza.
Comparve all’improvviso, come una visione una spianatrice e un container su ruote che fungeva da baracca. Deviai in quella direzione e stazionai la guzzona nei pressi di quella che ritenevo l’abitazione dell’operatore. Non ebbi il tempo di scendere dalla mia cavalcatura che un ringhio sordo mi fece sobbalzare e con il cuore in gola cercai di localizzare l’animale. Mi aiutò un nuovo verso più marcato a individuare il cane lupo nascosto dietro al carrozzone. Aveva lo sguardo minaccioso ed era pronto ad assalirmi appena mi fossi mosso. Ma i miei occhi avevano scoperto la corta catena che lo teneva al palo e rassicurato lo sfidai senza timore. Lui si rizzò sulle quattro zampe e puntandomi desideroso di azzannarmi emise un latrato cavernoso senza abbaiare, indugiò, poi fece alcuni passi fino al fine corsa e parve rammaricarsi di non poter proseguire nell’attacco, tentò in qualche maniera di forzare la catena, ma poi si rassegnò e con versi alterati e guaiti di rabbiosa prostrazione, mantenne la sua posizione di sfida aperta.
Chiamai a più riprese, ma nessuno mi rispose, quel luogo era deserto e sconsolato ripresi la mia moto e me ne andai sotto l’occhio attento di quel guardiano a quattro zampe.
Non avevo più di dieci chilometri di autonomia, poi sarei rimasto a secco su quella strada nuova di pacco, ma senza traffico, senza nessuno. Avanzavo lento nella steppa su quel nastro d’asfalto di borotalco con il cielo scuro a far cornice alla mia rassegnazione. Scandagliavo la piana in lontananza non più alla ricerca di un barlume di vita, ma per individuare un luogo ameno dove piantare la mia tenda e stazionare la mia cavalcatura su di un terreno consolidato. Mentre frugavo con lo sguardo quell’intarsio di cespugli e sabbia, scorsi, come un miraggio, un grumo di camion e auto e figure grigie minuscole ferme in adunata.
Ebbi un tuffo al cuore e aumentando i giri del motore percorsi quella distanza al galoppo. Stazionai la guzzona al centro della strada all’altezza dell’imbocco sabbioso che portava a quel cantiere e mi incamminai in direzione di quel crogiuolo di persone e mezzi messi in guisa di postazione militare. Mentre mi avvicinavo notai i numerosi camion, un paio di jeep, un camion trasporto carburante col muso vecchia maniera, una cilindratrice, un paio di scavatori e infine due baracche celesti su ruote, i dormitori degli operai. Ero salvo, pensai, cinque litri li avrei recuperati, pagandoli più dell’oro se necessario. Ma appena misi piede in quell’accampamento un vago senso di timore e di inadeguatezza prese il sopravvento. Mi sentivo fuori posto in quel momento, un fastidio, una zanzara, un insetto da schiacciare. Le urla le avevo avvertite da lontano ma mai mi sarei aspettato di vedere una fila di uomini disposti a mezzaluna a testa bassa, in silenzio, in balia delle grida scomposte, dei rimproveri, delle bestemmie, delle minacce, di un uomo di dimensioni enormi, indiavolato. Aveva mani come badili che agitava verso i suoi sottoposti come un ossesso. Avevo l’impressione che li volesse stritolare. Urlava e si dimenava come morso da una tarantola, sbraitava ed inveiva puntando loro il dito a baionetta e li chiamava per nome uno dopo l’altro, minacciandoli di chissà quali punizioni. Fu in quell’atmosfera opprimente, che a passi lenti, timoroso, umilmente mi avvicinai a quell’uomo mastodontico. Lui non s’accorse della mia presenza, furono gli sguardi sorpresi ed inquieti dei suoi sottoposti rivolti al mio indirizzo ad attrarlo e a costringerlo a interrompere la sequela di improperi, per rivolgermi uno sguardo inceneritore e chiedermi con un movimento della mano, chi fossi e cosa volessi. Io, prostrato davanti a quel gigante dai baffi spioventi e lo sguardo luciferino, annichilito dalla sua statura, ebbi la forza di proferire una sola parola:
“Benzin”
e fare il gesto con le mani di averla finita. Mi guardò come si guarda un insetto, uno scarafaggio, un intruso e senza proferir parola si perse per un attimo nei suoi pensieri. Sottomesso, spinto dal bisogno, presi coraggio e ne aggiunsi altre tre: “I can pay… “. Le dissi a fil di voce, timidamente. Mi guardò sprezzante, infastidito, poi volse il capo verso il più giovane dei suoi operai, urlò un nome e dette l’ordine di recuperare un po’ di benzina, mi si rivolse di nuovo e con una smorfia di disgusto, allungò il braccio e con il dorso della mano ondeggiante, senza degnarmi di uno sguardo, mi fece segno di sgombrare, di togliermi dai piedi, dalla sua vista. Girai i tacchi e fu davvero una liberazione mentre il bisonte riprese la sua reprimenda a suon di offese, parole condite d’ira e di disprezzo. Raggiunsi il ragazzo già in attesa, munito di tanica e imbuto, e insieme si andò al capezzale della moto. Gli feci segno con gesti inconfondibili che il suo capo era fuori di senno, che quella non era la maniera di trattare i sottoposti. Lui mi guardò stranito e volle rimarcare che lo chef aveva tutte le ragioni e che non c’era nulla da obiettare. I suoi compagni di lavoro erano degli inetti, oziosi e ubriaconi, una banda di irresponsabili capaci solo di far danni e lavorare al meno. Allora ritrattai sul pachiderma conscio di averne, nel mio piccolo, le stesse caratteristiche. Son facile a incendiarmi e di sproloqui, offese, bestemmie e improperi sono maestro. Volli pagare quei dieci litri di benzina ma il kazako non volle sentir ragioni. “Omaggio della ditta” disse, “lo chef glielo aveva raccomandato e obbedirgli era dovuto!”. Lo salutai con un abbraccio, una foto, e uno “Spassibo!” che voleva dire tutto e niente.
La gentilezza, l’umiltà, lo spessore di quel ragazzo parco di parole, mi avevano colpito, come la generosità dello chef nonostante fosse inviperito.
Gli chiesi al momento del commiato le condizioni della strada fino ad Oral e lui mi tranquillizzò con due parole: “Asfalt good!” Si, l’asfalto era perfetto indubbiamente, s’era dimenticato di dirmi, però, che queste erano le caratteristiche dei primi cinque chilometri, poi, la strada nuova in costruzione aveva prodotto una serie interminabile di deviazioni nella steppa. Erano comunque sopportabili. Ma il peggio doveva ancor venire… settanta chilometri su una strada che pareva la terra di nessuno. Una distesa di pozze, buche, sconnessioni, avvallamenti, salti, gradini, un mare di piccole voragini da prendere a velocità ridotta sperando nella buona sorte. Uno slalom interminabile, stancante che mise a dura prova i miei nervi e la mia resistenza.
Quando giunsi ad Oral, una città industriale sommatoria di tutto il peggio che la civiltà moderna possa offrire, mi parve d’esser giunto in un paradiso, finalmente un raggio di luce nell’oscurità. Dormii in un albergo da battaglia, con schiere di camionisti a far la spola fra un localetto pieno zeppo di ragazze e il lungo corridoio che portava dall’atrio d’entrata alle porte delle numerose stanze. Presi sonno in un letto che mi avvolgeva tutto, fra cicalecci, risa trattenute e scalpiccii di coppie frettolose in cerca del giaciglio per la notte. Ripensai alla fortuna avuta nel trovare in mezzo a quel mare di cespugli, erba secca e sabbia, quel cantiere solitario e quello chef che seppur infuriato era stato molto generoso, confermando, se ce ne fosse stato bisogno, di quanto l’Asia sia accogliente e quanto la solidarietà da questi popoli sia cosa sentita, doverosa.
Sergio 'Jeio' Freschi
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