CONFINE s.m.

dal lat. confine, neutro dell’agg. confinis «confinante», comp. di con- e del tema di finire «delimitare»

Sinonimi: limite, bordo, frontiera, fine, delimitazione, demarcazione, termine, estremità, soglia, linea, margine.

Ma anche dogana, sbarramento, blocco, valico, barriera, steccato, cippo, pietra.

E poi ancora

bordo, orlo

estremo

divisione

separazione.

Riparto da qui, dai miei giorni al confine, al confine tra due stati, tra due stagioni e soprattutto tra due viaggi.

Riparto dalle riflessioni scaturite in questo luogo speciale qual è il Parque Nacional Sajama nel departamento di Oruro in Bolivia. Il Sajama è il primo parco nazionale del paese, istituito nel 1945, e vanta un’area altiplanica protetta di 1000 kmq ad altitudini che vanno dai 4mila ai 6mila metri.

Non sapevamo bene che aspettarci, avevamo letto qualche informazione, sbirciato qualche immagine e sentito parlare qualche turista incontrato per strada di un luogo freddo e bello.

Ci siamo arrivate alla fine di settembre dopo aver incontrato finalmente la nostra terza compagna di viaggio, Maria, nella città di Sucre e essendoci spostate verso est a Potosí per visitare le miniere d’argento.

Due giorni in bus e una notte ad Oruro è stato il tempo impiegato a raggiungere il villaggio di Sajama, omonimo al parco e al suo principale protagonista, il vulcano.

Un pueblo silenzioso, polveroso e maltrattato dal vento pungente. Una manciata di case basse color sabbia si raggruppa intorno ad una piazzetta che sembra ferma nel tempo. Una chiesetta, intonaco bianco, tetto di paglia. Un campanile separato, sulla destra rimane immobile. Un uomo arriva pedalando, abbandona la bicicletta sull’orlo della piazza, sale i pochi e irregolari gradini della torre bianca, tira la corda e i rintocchi della campana vibrano nell’aria gelida. Raggiungono le orecchie assorte, le mani impegnate e risvegliano, distraggono, si alzano gli occhi e cosa vedono? La scenografia che circonda il villaggio: un “corral” di montagne, al tramonto si tinge tutto di rosso e di viola ed è subito magia.

I corrales sono le recinzioni circolari fatte di pietre o legno delle crías di lama e alpaca. La gente qui vive di allevamento ed ogni famiglia possiede il suo corral. Anche il pueblito di Sajama ha il suo, fatto di vulcani alti 6mila metri. Il primo a spiccare è maestoso, il re di tutti, il Sajama, con i suoi 6542 m rimane la cima più alta di tutta la Bolivia. Di fronte a lui si schierano i due gemelli, il Parinacota 6300 m. e il Pomerape 6282 m. entrambi con le cime imbiancate, nascondono alle loro spalle il sole che lentamente scende verso l’oceano e va a morire e a rinascere allo stesso tempo in un’altro emisfero. Alla loro destra nascosto dietro al campanile il Nevado Condoriri. Ad est si erge lontana, meravigliosa e sola, Anallajsi 5750 m., l’unica donna in mezzo a questa schiera di vulcani maschili. Al lato opposto, quello occidentale, l’Acotango 6050 m.

Eccolo qui l’anfiteatro di montagne a cui lo spettatore è esposto. Ogni cima con la sua caratteristica. Ben visibili e distinte. Estensione illimitata, ampiezza sterminata, tutto il contrario rispetto a quello che si vedrebbe nelle Alpi: una vetta incastrata nell’altra, spazio soffocato. Qui le montagne si possono ammirare nella loro interezza, memorizzare e disegnare nella mente.. in Europa risulta esser un compito più difficile: si ricordano le più alte, le più significative come forme, quelle che hai scalato più volte e ti rimangono nel cuore. Per le altre devi essere un esperto.

A Sajama viviamo dei giorni speciali, all’insegna di trekking in una natura altiplanica, geyser, lagune a 5mila metri e pozze di acque termali. Viviamo in casa di famiglie andine, le donne dalle trecce nere e  lunghe, le facce bruciate dal sole, i diversi strati di lana per sopravvivere al freddo. Stelle d’oro incastrate nei denti, regalano sorrisi luccicanti. Zuppe di quinoa, carne di alpaca e docce fredde.

Era da molto tempo che non incontravo un luogo così nel mio viaggio. Intenso e d’ispirazione. Fondamentale nei pensieri che sono nati.

Sono sette i mesi di viaggio ormai e qualcosa lentamente sta cambiando, o meglio qualcosa è già cambiato e la mia fase di realizzazione arriva solo ora. Mi trovo ad un limite di demarcazione appunto, una fase di soglia, in cui esco dal tempo dell’entusiasmo e della continua scoperta e entro invece in un territorio confinante quale quello della direzione, cercare la via del ritorno, ponendosi gli obiettivi, tirando le somme. Al confine tra Bolivia e Cile mi trovo al confine tra inverno ed estate e al confine dei miei due viaggi. Anche se è primavera e il sole si inizia a percepire caldo io vivo un po’ il mio autunno. Momento di calo di energia, introspezione e riflessione.

Mi chiedo qual è il significato di un limite geografico in questa terra tutta uguale, di altiplano andino, la Puna.

È tutta una regione comune quella che hanno Argentina, Bolivia, Cile e Perù in questo angolo di mondo. Ed è mesi che vivo questa regione e devo dire che nonostante la Patagonia mi abbia strappato il cuore, qui rimango estremamente affascinata. È una terra con una forte energia. Le immense risorse minerarie che si nascondono sotto suolo, il deserto, le montagne dai mille colori dati dai loro strati di sedimenti, i vulcani che contengono nelle loro viscere il calore terrestre. Una terra viva che erutta e respira acqua e vapore sotto forma di geyser e pozze d’acqua calda. Molto spesso sono le montagne a delimitare le frontiere tra gli Stati. A volte sono divise a metà: il versante cileno, quello boliviano.

Negli ultimi mesi sono stati tanti gli orizzonti e gli scorci differenti dei vulcani da un lato e un altro dei paesi. Dalla provincia di Salta e Jujuy, dal Salar de Uyuni, da San Pedro, da Sajama, da Arica. La costante i 4mila metri dell’altiplano. In soli due mesi sono 4 i paesi in cui sono passata, 7 le dogane che ho dovuto attraversare, code, metal detector, ispezioni, apri lo zaino, chiudi lo zaino, dichiarazioni, 14 timbri, entrate, uscite, sportelli.. ma in fondo, a pensarci bene, si tratta di un solo “regno” precolombino, il Tawantinsuyu ( in lingua quechua e aymara) l’impero Inca.

Nel suo massimo splendore si estendeva da l’attuale Quito in Ecuador e scendeva fino a Santiago de Cile. La sua capitale Cuzco si raggiungeva a piedi da ogni parte dell’Impero attraversando la rete di sentieri incaici sulle montagne, lungo la cordigliera: il Qhapaq Ñan.

Quindi montagne come vie, strade, ponti, punti di connessione, non come frontiere.

Chi l’ha poi inventata questa delle frontiere? L’uomo bianco ovviamente. L’arrivo degli spagnoli e la successiva fase di indipendenza dalla corona spagnola ha fatto sì che si creassero gli Stati come siamo abituati a vederli noi oggi. Costellazioni di bandiere in ogni dove, patriottismo alle stelle. E qui più che mai, per motivi storici e politici, si vive questa separazione. La guerra del Pacifico a fine ‘800, conosciuta anche come guerra del salnitro, ha sottratto il mare alla Bolivia e nonostante siano passati secoli la rivendicazione dello sbocco diretto sul mare è tuttora attuale. Proprio in questi giorni c’è stata la sentenza finale al tribunale dell’Aia sulla questione dell’accesso al mare per la Bolivia, richiesta 5 anni fa all’Onu dal presidente Evo Morales. Purtroppo sembra che i boliviani abbiano perso definitivamente anche questa guerra.

Quello che tuttora rimane visibile di questi conflitti territoriali tra Bolivia e Cile, tra Cile e Perù sono le sterminate aree di confine piene di mine antiuomo.

Ritornando ai nostri giorni nel parco, succede che partiamo per un trekking a la Lagunas de Altura e ci addentriamo, ci avviciniamo alle montagne e raggiungiamo la linea di demarcazione, il confine fisico. E mai lo avevo immaginato come un traliccio rosso e nemmeno tanto alto con una targhetta bianca in cima, leggo da un lato BOLIVIA e dall’altro CILE. Non ci sono barriere, recinzioni, posti di blocco come siamo abituate alle dogane. Nemmeno l’ombra di timbri sui passaporti. Muovo i miei passi liberamente, in un attimo sono in Cile ma se cambio idea due secondi dopo sono in Bolivia. Qual è la fine? C’è un muretto costruito rudimentalmente. È veramente questa la linea di delimitazione? Dove mi trovo? Sono in montagna, di fronte a me una laguna a 5mila metri, qualche anatra, è nuvoloso. Il mio respiro si affanna ma ho i piedi bien piantati a terra e un bolo di coca nella guancia destra. Non ci sono frontiere qui, mi sento a casa, in alto sulle Ande, ma potrei essere anche sul Monte Bianco sul confine tra Francia e Italia o in Val Codera nei pressi di Chiavenna, dove a loro tempo le Aquile Randagie avevano aiutato i perseguitati politici del fascismo ad espatriare in Svizzera.

Max, il mio amico austriaco conosciuto in viaggio, mi ha parlato di un cammino che attraversa le Alpi e da Monaco di Baviera arriva in Veneto. Non vedo l’ora di percorrerlo questo sentiero e di sfidare i limiti. Sentire che si è solo gambe e piedi che si muovono e non dover varcare nessun valico, cancello o barriera. Perché in fondo sarebbe più esatto parlare di passaggi, di discese e di salite, di regioni geografiche, abitudini che cambiano, e diversi idiomi. Che valore hanno i confini geografici, le linee di demarcazione in territori come la Patagonia e l’altiplano? Sono concetti che vanno al di là di mappe e questioni politiche. I Mapuche non sono ne argentini ne cileni, sono gente della loro terra.

Ed è proprio così che mi sento rispetto al mio viaggio, sono sulla soglia ed è giusto attraversarla e viverla come una rivoluzione, un passaggio.. non per forza la fine di una Elisabetta e l’inizio di un’alta, perché i cambi netti non esistono, bisogna salire con fatica e poi scendere magari anche correndo, lasciando sciolte le ginocchia e sentire l’adrenalina della cima raggiunta. Così è stato per i miei primi 12mila (6+6). Dando tutta me stessa in salita e rilassandomi in discesa. Da lassù si vedeva tutto l’altiplano, la Bolivia da un lato e il deserto d’Atacama e il Cile dall’altro, se strizzavo gli occhi riuscivo a scorgere pure l’oceano. Sensazione unica. Bellezza a non finire. Ti senti una briciola di fronte alla montagna a cui sei in cima eppure quei 1200 metri di dislivello li hai fatti tu, passo dopo passo.

Capisco bene perché le montagne per gli inca sono sempre state dei luoghi sacri, così alte, vicine al cielo, luoghi dei sacrifici agli dei. Ogni montagna era associata ad un Apu, spirito e divinità che la abita e protegge chi si accinge a scalarla. Nonostante siano passati secoli il culto della montagna come entità viva è ancora forte. È la Pachamama, la madre terra, forza genitrice e creatrice. A lei tutto si deve:

“l’indio, arrivando al punto più alto della montagna lascia sempre alla Pachamama, la madre terra, tutte le sue pene, e il simbolo di queste è una pietra che finisce col formare piramidi.”

(da Latinoamericana. I diari della motocicletta. Ernesto Che Guevara)

Mario, il nostro amico-guida boliviano ci insegna a lasciare sempre una manciata di foglie di coca come offerta alla montagna. È per la buena suerte dice.

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Sono convinta che la madre terra non conosca confini e separazioni.

Le sono immensamente grata.