Joyside Imbarco volante Sergio Jeio Freschi

Imbarco volante

Una visita alla birreria danese, due graziose cameriere, un pub e un traghetto da prendere. Difficile conciliare tutto nel migliore dei modi per Jeio.

Ero arrivato tardi al porto di Juelsminde, nello Jutland, in Danimarca, per imbarcarmi sul traghetto per Kalundborg. Come mia abitudine, mio difetto congenito, mi ero fatto prendere dagli eventi, nonostante mi aspettasse proprio un evento imperdibile al quale sognavo da tempo di partecipare: il Festival di Roskilde. All’opera, quell’anno, un centinaio di complessi fra i quali si distinguevano Neil Young, Velvet Underground, Ray Charles, Chris Isaak, Living Color e via andare. C’erano anche i Litfiba.

Era il 30 giugno del 1993, mercoledì ed i concerti iniziavano il giorno dopo alle 17.30 con Les Tambours du Bronx nella vastissima zona a disposizione con ben cinque palchi nei pressi della città. Al solito, avevo trovato il modo di ritardare il più possibile la partenza da Arhus, città carina con uno splendido museo all’aperto, il Den Gamle By, museo della città vecchia, il più antico al mondo, davvero imperdibile e lo stabilimento di produzione della birra Bryghus, in periferia.

Avevo visitato entrambi, ma con una sosta prolungata nella birreria interna del secondo, per una degustazione approfondita delle varie tipologie di birra prodotte in compagnia di due splendide cameriere, commosse, quasi, dalla mia irrefrenabile curiosità e dai relativi consumi che loro, naturalmente, stimolavano.

Le birre, dal mio punto di vista non erano eccezionali, loro si! Non contento mi ero spinto fino a Horsens e quindi a Vejle. E così avevo fatto tardi.

Giunto al porto semideserto di Juelsminde, scelto per la presenza nella cittadina in caso di bisogno di un camping, compresi immediatamente che per il traghetto avrei dovuto aspettare la mattina seguente. Le otto del mattino, precisamente, come era ben indicato nel pannello degli arrivi e delle partenze dei traghetti, nei pressi della biglietteria. Tempo di traversata tre ore: perfetto. Partenza di primo mattino, sbarco a Kalundborg, dopodichè una sessantina di chilometri sulla guzzona e all’una del pomeriggio le due al massimo, sarei giunto a Roskilde, con ampio margine per l’acquisto del biglietto e per il posizionamento della tenda. Corsi veloce alla ricerca del camping. Una fortuna sfacciata: si trovava sulla falesia dominante il porto a non più di due minuti dall’imbarcadero. Piantai la mia minuscola canadese all’estremità del prato da dove potevo dominare il porto giù in basso e il mare in lontananza, una favola, bellissimo. Feci una doccia volante con acqua del circolo polare artico e appena ripresomi decisi di andare a cena da qualche parte nelle vicinanze. Scesi il salitone che portava al camping e scelsi di entrare nel primo pub che incontrai, a poca distanza dall’imbocco dell’acciottolato in pendenza che dal porto portava alla reception del camping. Avevo già pagato in anticipo e quindi mi sentivo tranquillo, al mattino potevo andarmene a mio piacimento.

Il pub però si rivelò una trappola. Ottima musica, hamburgher e patate speciali, birra di produzione locale squisita, servizio friendly e la presenza con annessa e connessa conoscenza di David: guzzista. Risultato: festa.

Ne uscii tardi, molto tardi e decisamente ubriaco! La salita con la moto la affrontai a gambe larghe con appoggi continui e chiudendo un occhio per tentare una corsa possibilmente rettilinea. Porre la moto sul cavalletto centrale, evitando il ribaltamento, fu davvero un’impresa. Ci misi una vita. Mi coricai sopra il sacco a pelo e il materassino, gonfio a metà, senza togliermi il casco, ma non riuscii a prender sonno. Girava tutto, un vortice. Uscii nella notte a prender aria e mi svestii all’esterno della tenda gettando all’intorno i miei stracci, il casco e tutto il resto.

Entrai in tenda trascinandomi.

Mi aggrappai al materassino come un rocciatore, per riuscirmi a portare interamente all’interno. Tentai di addormentarmi, ma un’allerta interiore mi impedì di prender sonno compiutamente. La paura di non svegliarmi per tempo mi impediva il sonno. Rimasi in dormiveglia fino alle sette del mattino e a quel punto mi rinfrancai, mancava poco per andarmene e mi rilassai fino al punto di…. addormentarmi!

Fui svegliato di soprassalto, come colpito da una alabarda al cuore, dal fischio cupo e lancinante di una sirena: la sirena del traghetto. Nitido, univoco, sadico. Guardai l’orologio: sette e cinquantotto. Uscii dalla tenda come una palla di cannone e di corsa andai sul bordo per sincerarmi della situazione. Il traghetto minuscolo aveva già scaricato tutte le vetture ed era in procinto di far salire le ultime due auto ancora in attesa. Non avevo tempo da perdere. Che fare? Ebbi un’illuminazione. Tolsi in gran fretta il tappo al materassino di gomma, raccattai tutti i miei indumenti e il casco sparsi per il prato e li gettai all’interno della tenda. Poi fu la volta dei picchetti che lanciai attraverso l’apertura, alla rinfusa, misi in orizzontale i due paletti tubolari di sostegno disinserendoli dalla pertica tubolare centrale in tre pezzi che accorciai e quindi chiusa la cerniera anteriore, arrotolai il tutto in un grande fagotto. A fatica lo posizionai alla bell’e meglio sul portapacchi posteriore e lo fissai in fretta e furia con un paio di elastici con gancio. Fortunatamente le chiavi erano ancora inserite sul cruscotto per essermele dimenticate lì quella notte, Indossai in fretta gli stivali senza nemmeno chiuderli con la cerniera, misi in moto il bolide e partii di gran carriera sotto gli occhi e lo sconcerto della signora alla reception.

Aggredii di volata il discesone che dalla via del porto portava al camping e fatta la curva a gomito a velocità proibitiva vista l’instabilità del carico, sbracciandomi superai la biglietteria e mi diressi verso la poppa del traghetto.

Stavano sollevando con le due catene laterali la grande pedana in metallo che permetteva la discesa e la salita degli automezzi. Quando uno degli addetti mi vide, dopo un attimo di comprensibile sconcerto, rivolse uno sguardo interrogativo al capitano, il quale ebbe un attimo di indecisione, guardò l’orologio e scuotendo la testa diede l’ordine di riabbassare la pedana.

Entrai nella pancia dell’imbarcazione lentamente, come un reo confesso pentito a cui la giuria aveva concesso la grazia.

L’enorme bagaglio informe afflosciato sulle borse laterali della moto pareva una grossa protuberanza, un gigantesco bubbone, un paracadute mal avvolto. Le corde di tiraggio della tenda avevano perso il biancore originale e sporche si trascinavano, scivolando, sull’unto della pedana come rami di salice piangente sul filo dell’acqua. Quando il controllore mi venne incontro per chiedermi il biglietto, dopo avermi aiutato ad issare la moto sul cavalletto, rimase un attimo in osservazione e scuotendo il capo mi guardò come fossi un fossile, un residuo umano. Sorrise però, togliendo un po’ di tensione a quell’improvviso silenzio che era seguito allo spegnimento del motore e agli sguardi increduli dei presenti.

Quando ebbi il tempo di guardarmi, compresi lo sconcerto. Ero in mutande.

I segni della lotta notturna, il marrone della terra e il verde dell’erba decoravano gli slip, le gambe e la t-shirt presentava pure uno strappo laterale, credo, opera di un picchetto. Gli stivali lerci parevano delle orecchie di lepre applicate alle caviglie. La mia faccia pallida per la frescura mattutina, riflessa dallo specchietto retrovisore, aveva una chiazza nera che ne copriva un lato e il naso. Olio bruciato, una decalcomania lasciata in eredità da uno dei miei guanti, credo durante la lotta notturna per issare la moto sul cavalletto, chissà?

Il controllore fu inflessibile: trenta per cento di maggiorazione sul prezzo del biglietto per non averlo acquistato alla biglietteria e multa per esserne sprovvisto. Ma fu gentile, mi diede tutto il tempo necessario per recuperare il denaro dal portafoglio all’interno del grande fagotto, e mi lasciò rimettere in ordine tutte le mie cose senza darmi fretta. Mi mise a disposizione perfino la toilette riservata all’equipaggio, per una eventuale pulizia personale. Mentre la gente a bordo mi guardava con diffidenza e qualcuno con disgusto, il controllore, al contrario fu molto cordiale.

Finita la sistemazione dei bagagli, sempre in mutande naturalmente, con gli sguardi fissi del personale e dei passeggeri a mettermi pressione, e terminata l’operazione di restauro mediante una doccia tonificante con acqua prossima allo zero termico, mi avvicinai al controllore per munirmi del biglietto e pagare la relativa multa. Egli inaspettatamente mi trasse da parte e con aria complice mi invitò ad attendere. Aveva in mente una soluzione per evitarmi il pagamento di quella somma ingente. Fu così che, trovato posto su una panchina di legno, nonostante la scomodità, mi addormentai.

Giunti a Kalundborg, fu lui a svegliarmi e ad accompagnarmi alla biglietteria. Spiegò all’addetta, restia peraltro a seguirne gli intendimenti, la mia situazione e seppur a fatica, riuscì nel suo intento.

Finì con una formula compromissoria.

Dovetti pagare la tariffa delle auto, un po’ più cara di quella delle moto e non mi fu comminata nessuna multa o maggiorazione. Il controllore mi spiegò che era sua facoltà solo l’emissione di biglietti maggiorati con relativa multa e che era stata dura convincere la sua collega a chiudere un occhio e piegarsi alla sua volontà. Lo ringraziai ripetutamente non sapendo come sdebitarmi. Al momento del commiato mi confidò di essere un pilota amatoriale di speedway e che in gioventù aveva anche gareggiato, ma senza troppa fortuna. Era uno dei nostri! Che fortuna!