Era il luglio 2006, mi trovavo nella città a mio parere più bella e più piacevole da visitare, il cioccolatino dell’Asia Centrale: Khiva. Meravigliosa, tenuta in maniera impeccabile dalla gente del posto, ordinata, pulita, turistica ma con quel tocco di pudore, di elegante discrezione, di silenziosa e delicata bellezza, di misurata presenza.
Khiva è come una ragazza dalle forme perfette che promette, lascia intravvedere una maturità stordente, una bellezza provocante.
Se dovessi paragonarla ad uno strumento musicale, il clarinetto è quello che le rende maggiormente giustizia. Khiva è leggera, giocosa, ma allo stesso tempo forte. Le sue mura dalle forme arrotondate, dai colori tenui del fango, così eleganti e armoniche, nascondono allo stesso tempo possanza, protezione, resistenza, baluardo. Khiva incanta ed io quel pomeriggio ero rapito da questo susseguirsi di palazzi quasi tutti trasformati in musei, dalle misteriose madrasse, le scuole coraniche. Dopo aver superato lo splendido minareto conico in piastrelle turchesi, il Kalta Minor e dopo aver visitato il magnifico Mausoleo di Pahalavon Mohammed e il minareto Islom-Huja con la spettacolare visione d’insieme della città fortificata, mi ero fermato un attimo all’ombra, nel tentativo di trovare refrigerio. I turisti latitavano in quel giorno, forse per la calura o perché non era giornata festiva. Ero il solo che si aggirava, profittando dell’ombra, per quei vicoli pavimentati perfettamente con acciottolato e porfido.
Ero fermo, sofferente per la calura, ma incantato dalla pulizia di linee, dall’eleganza, dalla sobrietà del minareto. Vista la preda solitaria una ragazzina mi corse incontro con in mano un paio di braccialetti e alcune collanine, mentre con l’altra mano mi faceva segno di seguirla verso il piccolo banchetto e i numerosi espositori posti lungo la parete esterna della madrassa Islom-Huja dove teneva tutta la sua mercanzia. La seguii per cortesia ma senza interesse, per non deluderla. Mentre le passavo accanto, salutai la signora che se ne stava seduta su una sedia nei pressi di un espositore di cappelli tradizionali per giovani ragazze, che rispose al mio saluto con noncuranza, convinta, forse, che non ero, a suo avviso, un cliente potenziale e che la ragazzina si fosse attivata per nulla. Ed infatti, nonostante i suoi sforzi nel presentarmi gli articoli più disparati cercando di convincermi all’acquisto, fui irremovibile. In realtà avevo già adocchiato un bellissimo gilet azzurro con ricami colorati che mi stuzzicava all’acquisto, ma non glielo detti a vedere. Io ho la mania dei gilet, è una delle mie numerose debolezze, insieme ai cappelli, ai quali non riesco proprio a resistere. Ho però una qualità, che mi è fondamentale: acquisto solo ciò che mi colpisce di primo acchito, non riesco a farmi piacere ciò che non mi conquista immediatamente. Quel gilet mi aveva folgorato, lo sapevo, era già mio, qualsiasi fosse stato il prezzo: son fatto così!
Un altro fattore inoltre era intervenuto a dare ulteriore slancio all’acquisto, la simpatia spontanea per quella ragazzina così dolce, amabile, brillante, determinata.
Bella, con i suoi capelli raccolti, la sua faccia tonda, il collo corto e sottile, la sua pelle ambrata e quel suo sguardo difettato che mi faceva impazzire di tenerezza. Le volevo già bene e la stuzzicavo chiedendole sempre nuovi ragguagli sugli oggetti e specialmente sui kilim che aveva esposti. Lei però era furba, aveva già intuito che stavo giocando e che le mie intenzioni non erano improntate all’acquisto e allora, abbandonando ogni velleità, mi invitò a giocare. Mi sfidò al gioco dei cinque sassolini.

Il gioco consiste nel buttare in aria un sassolino e in sequenza prenderne prima uno per volta quelli sparsi, poi a due a due, poi prima uno e poi tre, poi tutti e quattro insieme, sempre beninteso riprendendo al volo il sassolino lanciato in aria, evitando così la sua caduta, pena passar la mano all’avversario. In realtà il gioco si svolge su nove esercizi di destrezza e poi il decimo ti fa conquistare i punti. Mi aveva sfidato con la clausola che se avessi perso ero costretto all’acquisto di un articolo che superasse i cinque dollari. Eh no! Non doveva farlo! Sapeva con chi aveva a che fare?
Stava sfidando inconsapevolmente il campione, per ben due annate, 1966/67-1967/68, del collegio e colonia estiva “Italia” di Lignano Sabbiadoro. Quei due anni scolastici li avevo trascorsi forzatamente in quell’istituto, causa la tubercolosi che aveva colpito mia madre, costringendo mio padre a spedirmi in quella sede di proprietà della Pontificia Opera Assistenza. A Lignano giocavamo con le piccole pigne tonde dei cipressi ed io vincevo sistematicamente. Oltre alla mia naturale abilità, potevo contare sul vantaggio, non secondario, delle mie mani enormi.
Quando, con i sassolini sul palmo della mano che lei mi porse perché li raccogliessi e iniziassi a giocare, mi guardò con il suo occhio buono mentre l’altro era perso in lontananza, notai una dolcezza quasi forzata che nascondeva la soddisfazione di avermi preso in trappola. Eh no! Così non si fa! Pensai. La stracciai senza requiem. Non avevo perso la mano, volavo. Alla fine della partita avevo raggiunto il punteggio massimo. Alla sorpresa iniziale, vidi il suo viso sconsolato percorso da una delusione cocente. Incredula, emaciata, ebbe un attimo di smarrimento che immediatamente mise da parte con un moto d’orgoglio e di rivalsa. Mi chiese la rivincita, senza nessuna clausola, senza nessun pegno.
Nel suo sguardo rinnovato, vidi una composta ma rabbiosa determinazione.
Con cipiglio iniziò lei, ma non ebbe scampo. La massacrai giocando in scioltezza, senza irriderla, con naturalezza. Lei comprese la sua inferiorità e mi sorrise quasi a complimentarsi con me, poi con un balzo si levò in piedi e andò di corsa sul tavolino dove esponeva le sue cianfrusaglie. Se ne tornò con un braccialetto in cotone a fili intrecciati che richiamavano la bandiera uzbeka e me lo porse. Rifiutai il suo regalo spiegandole, che non c’erano stati fra noi accordi per la posta in gioco e quindi lei non era assolutamente in debito con me. Mi prese alla sprovvista. Mi dette un bacio sulla guancia e scappò via a rimettere il braccialetto al suo posto e se ne tornò in fretta.
Stette in piedi accanto alla sorella più giovane di lei di qualche anno. La ragazzina aveva assistito alla nostra sfida con molto interesse e partecipazione, accovacciata sul tappeto sede della contesa. Volle anche lei sfidarmi. Fece la stessa fine; ma in quell’occasione si rivelò più brava della sorella. Giocava nettamente più sciolta. Bella anche lei, più sanguigna e meno riflessiva della sorella, rideva con gaiezza ad ogni suo errore. Giocava con maggiore distacco e alla sconfitta non dette peso, si era divertita a sfidare uno straniero che proveniva da una nazione di cui aveva sentito parlare, mi disse, ma della quale non sapeva esattamente la posizione geografica. Le feci uno schizzo frettoloso, la vidi sforzarsi di comprendere quello che le andavo spiegando, ma si stancò subito di rovistare nella sua memoria scolastica e con un balzo, la stessa dinamica di sua sorella, andò da quella che scopersi essere la madre e se ne tornò con due caramelle che mi offrì. Accettai e la ringraziai, mentre la sorella mi guardò con disappunto. Le feci l’occhiolino per ammorbidirla, ma non feci breccia. Aveva del carattere l’uzbeka.
Mi rialzai dalla posizione scomoda in cui avevo giocato e mi sgranchii le membra anchilosate. Le due ragazzine parevano dispiaciute che me ne andassi. Furono sorprese e molto ben disposte quando con nonchalance chiesi loro se gentilmente mi potevano mostrare quel gilet azzurro appeso in alto sul muro. Lo raccolse la più grande e me lo consegnò dimenticandosi di magnificarlo, quasi che a lei non importasse quella richiesta, ma solo trattenermi per continuare quella piacevole conversazione. Mentre giocavo la seconda partita, avevo parlato loro dei miei viaggi, delle mie avventure, magnificando la mia regione e l’Italia intera e loro ne erano rimaste affascinate. Quando infine chiesi il prezzo, i loro visi s’accesero, mi sorrisero stupite e la più giovane mi indicò il cartellino, legato con dello spago sottile, appeso a un’asola, dove compariva una cifra con parecchi zeri. Feci un rapido calcolo: dodici euro e il gilet era mio. Non chiesi lo sconto ma le due vollero farmelo ugualmente, nonostante i miei ripetuti rifiuti. Allora preso dallo slancio e quasi per sdebitarmi, acquistai anche una borsa da spalla e un po’ di chincaglieria varia. Loro rimasero stupite, incredule davanti a tanto furore spendereccio, mentre la madre non la smetteva di osservarci stranita.
Pagai e me ne andai dopo aver scattato un paio di foto, ricevuto due baci e dato due abbracci intensi. Vidi nei loro sguardi il dispiacere, nonostante la visibile soddisfazione per le vendite insperate.
Mentre mi allontanavo con la mia mercanzia raccolta in una borsa di nylon trasparente gonfia e coloratissima, mi sentii chiamare e come un fulmine arrivò alle mie spalle la più giovane delle sorelle con dei dolcetti in una mano. Me li consegnò. Erano da parte di sua madre, disse in un francese perfetto, mi ringraziava per la pazienza e la disponibilità. La salutai con un cenno della mano al quale lei rispose con un inchino del capo ed una smorfia di sorriso. Si unì al saluto anche la figlia grande, alzando a metà il braccio e ondeggiando la sua mano quasi con pudore, regalandomi un mezzo sorriso e uno sguardo che valeva più di mille parole.
